CapoTrave

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www.ateatro.it, mercoledì 2 febbraio 2022

Le Residenze Digitali, una delle iniziative più interessanti nate durante la pandemia, già finalista al Premio Rete Critica 2021, hanno lanciato il bando per la terza edizione, scandenza giovedì 24 febbraio per candidarsi
Il progetto, che si rivolge agli artisti delle performing arts che vogliano esplorare lo spazio digitale nel proprio percorso autoriale, è ideato e promosso dal Centro di Residenza della Toscana (Armunia, CapoTrave/Kilowatt), in partenariato con AMAT, il Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’arboreto – Teatro Dimora, La Corte Ospitale), la Fondazione Luzzati Teatro della Tosse di Genova, ZONA K di Milano, a cui si aggiungono quest’anno altre due realtà: Fondazione Piemonte dal Vivo / Lavanderia a Vapore e Fondazione Romaeuropa.
Questa rete di 9 partner nel 2022 seleziona e sostiene 6 progetti artistici con un contributo di residenza pari a 3.500 euro + iva ciascuno. Ogni proposta deve prevedere una restituzione online aperta al pubblico, che si terrà a novembre 2022. Nell’occasione, Vincenza Di Vita ha intervistato Luca Ricci e Lucia Franchi di CapoTrave/Kilowatt.

Cos’è per voi il teatro?

Luca – Il teatro è un’arte che esprime l’ingegno e la sensibilità dell’essere umano. È un ambiente in cui le competenze tecniche si fondono con quelle artigianali, in cui, per viverlo quale parte attiva che produce contenuti, servono visioni culturali, storiche, antropologiche, pensiero sociale e politico, ma anche attitudini relazionali, psicologiche, organizzative: è proprio questa sua pluralità di prospettive a renderlo tanto affascinante, per me, ovvero un contesto sempre diverso, e una fonte inesauribile di espressione delle complessità che ognuno di noi porta dentro.

Lucia – Il teatro è un luogo di incontro delle diversità, anche di quelle che non hanno spazio e possibilità di espressione in altri contesti. Se ripenso al momento in cui ci sono entrata, a 18 anni, ricordo perfettamente la percezione di aver trovato un ambito in cui certe mie “storture” personali – che non avevano sin lì trovato un posto in cui stare a loro agio – stavano invece bene e, anzi, non erano più percepite come diversità, ma piuttosto mi rendevano parte di un gruppo, insieme ad altri.

Quando il teatro diventa comunità?

Lucia – Le comunità di riferimento del teatro sono sempre plurali, sia per le specificità dei differenti luoghi in cui un teatro opera, sia perché ogni teatro sceglie quali gruppi di persone vuole incontrare, a chi vuole parlare. Quindi prima di tutto va focalizzato con chi si vuole entrare in relazione. Il secondo passo è ascoltare: i bisogni che ogni luogo e che ogni comunità esprimono non sono mai univoci, bisogna avere la capacità di coglierli e interpretarli. Solo al terzo posto viene l’elaborazione del proprio racconto artistico e la capacità di saperlo trasmettere. Che non significa subordinare la libertà dell’arte agli altri passaggi che l’hanno preceduta, ma immaginare che l’arte possa e debba inserirsi dentro un dialogo con i luoghi e con le persone. Se questi sono i passaggi, si crea una comunità che sente di essere parte di un processo e di un discorso teatrale.

Luca – Quello che dice Lucia è il metodo che noi abbiamo applicato tante volte e che ci ha insegnato molto e dato bei risultati, nel medio e lungo periodo. Però poi ci capita spesso di pensare che la vera arte abbia in sé la forza pura e innata di parlare agli individui e al proprio tempo, e che la sua forza di attrazione basti a generare interesse e creare comunità. Dopodiché è vero che non sempre siamo in grado di proporre un’arte così assoluta e nitida, e dunque creare comunità intorno all’azione teatrale serve a formare un pubblico che è indulgente pure con gli esperimenti, le prove e gli errori di cui l’arte ha bisogno per farsi grande.

Avete mai pensato di fare un altro mestiere?

Insieme – Eeeh… molte volte!

Lucia – Io avrei voluto fare l’etologa, perché mi è sempre venuta naturale la relazione con gli animali, alle volte più di quella con gli esseri umani. Con gli animali si usa un linguaggio della sincerità del corpo, che non ha bisogno della mediazione delle parole, che sono spesso un inciampo, creano equivoci, hanno un peso specifico talmente importante che diventa facile spostare il significato delle proprie emozioni.

Luca – Al contrario, a me sono sempre piaciuti tutti i mestieri che hanno a che fare con la relazione tra esseri umani. Io trovo la mia dimensione più adatta nello scambio di idee, nel confronto, anche nell’espressione delle divergenze; discutere con le persone è per me una cosa molto naturale, un modo per entrare nel punto di vista di chi è diverso da me, alle volte lo è anche il litigare che considero un’opzione dialettica, tutt’altro che sconvolgente. Difendere le proprie posizioni con fervore è un valore, non mi piace chi è sempre d’accordo con tutti e su ogni cosa, e così si lascia scorrere tutto addosso. In conclusione gli altri mestieri che avrei potuto fare sono il giornalista, il politico, oppure il prete!

Siete stati premiati con i più importanti riconoscimenti italiani per il vostro lavoro, come vi ha reso questo? Che genere di responsabilità ha generato in voi?

Luca – Il primo premio Ubu, quello del 2011, dato all’azione dei Visionari come progetto speciale era stato lieve e leggero come metterci un paio di ali sulle spalle e invitarci a volare. I premi di questo 2021 che si è appena chiuso, il Premio della Critica ANCT a Kilowatt e il Premio Ubu a noi due, come migliori curatori, hanno invece il peso di una responsabilità molto più concreta: sono arrivati in un momento di grande crisi per tutto il sistema nazionale dello spettacolo dal vivo, e ci dicono che anche da noi due ci si aspettano idee, proposte, giuste domande e possibili soluzioni per la ripartenza del nostro mestiere e la crescita di tutti gli artisti, i tecnici e gli organizzativi che vi operano.

Lucia – Io sento che questa responsabilità di cui parla la tua domanda si estenda anche al ruolo femminile nel dirigere. Questi riconoscimenti affermano un possibile modo di esercitare il ruolo di direzione. Non è affatto detto che le donne debbano ispirarsi a un modello di direzione maschile. Io ho attitudini relazionali differenti da quelle di Luca e ho una personalità diversa da lui, e in questo c’entra molto anche la mia femminilità, ma non per questo ho un ruolo secondario nella direzione della nostra struttura. Sono a tal punto convinta che le donne possano guidare un progetto, un’azione, una squadra di persone, che non ho mai avuto l’esigenza di esibire questo mio ruolo: a volte questa mia attitudine è stata fraintesa, e non veniva letto come dentro questa direzione congiunta ci fosse un assoluto equilibrio di forze tra noi. Mi ha fatto piacere che i premi più recenti, e specialmente l’Ubu, colgano invece questa nostro modo sinergico di operare in coppia: io vivo ogni giorno questa parità, nel mio rapporto di co-direzione, e anche per questo non sento il bisogno di ostentare il mio ruolo, per di più in forme aggressive di rivendicazione.

Descrivete in una parola ciò che vi rappresenta nella quotidianità del fare teatrale.

Lucia – Intransigenza.

Luca – Passione.
www.dramma.it, domenica 11 luglio 2021

Tra qualche giorno comincerà la XIX edizione di Kilowatt Festival, in quel di Sansepolcro dal 16 al 24 luglio e con una icastica e molto appropriata denominazione. Come sappiamo il Festival è il frutto dell’intenso lavoro di Lucia Franchi e Luca Ricci, che sono anche la Compagnia CapoTrave, e della loro squadra che nella difficoltà di questi tempi ha saputo conservare una unità di intenti rara. Segno tipico di entrambe le realtà è una capacità di ascolto di ciò che, nella società teatrale e nella società tout court, attorno accade. Una capacità di ascolto che produce lavori drammaturgici attenti al presente ma capaci di andare oltre lo stesso presente per intercettare temi universali ed essenziali, e insieme promuove con il Festival la consapevolezza di comunità altrimenti distanti e disattente, che vengono cooptate nel processo sia organizzativo che creativo, ad esempio con l’ormai famoso gruppo dei Visionari, cittadini di Sansepolcro che partecipano con continuità alla selezione di parte delle opere da invitare. Sono ruoli e attività che non confliggono ma, pur nella distinzione, sono riuscite negli anni a vicendevolmente fecondarsi. Incontro Lucia Franchi, Luca Ricci essendo impegnato nelle prove del loro ultimo lavoro, per questa intensa conversazione.

In quasi venti anni di attività avete saputo conquistare un posto di rilievo nel panorama teatrale nazionale. Da una parte una creatività drammaturgica che intercetta temi sensibili trasfigurandoli esteticamente, dall’altra quella che chiamerei attività di promozione del teatro come costruzione di una comunità più consapevole. Quale di questi due elementi consideri prevalente oggi?

Una domanda molto stimolante. Innanzitutto anche quando dirò io sarà sempre un noi, perchè parlerò anche per Luca Ricci, in quanto il nostro è un lavoro condiviso. A volte abbiamo riflettuto, Luca ed io, su questo nostro doppio ruolo, da una parte quello di coloro che producono i propri spettacoli e che hanno la loro compagnia, che va appunto sotto il nome di CapoTrave, dall’altra Kilowatt, il festival che organizziamo e dirigiamo, la parte delle Residenze Artistiche e delle ospitalità dunque. Ci sembra però che, in realtà, queste siano facce diverse di uno stesso modo di intendere e di fare il teatro. Come tu giustamente focalizzavi, con i nostri lavori più recenti come “Piccola Patria”, noi cerchiamo di raccontare il presente, e di filtrarlo attraverso quella che è la nostra lettura del presente, stando proprio nella contemporaneità dei fatti che accadono. La stessa cosa cerchiamo di fare anche con il nostro Festival, vogliamo cioè che il nostro Festival, magari affidando la voce non più a noi stessi ma ad altri artisti, racconti quello che il nostro tempo attraversa. Le due attività, il nostro racconto come autori e registi, e il nostro racconto come direttori del festival, dunque per interposte persone, vogliamo siano il tentativo di parlare alla comunità, di creare linguaggi che nella loro diversità e pluralità comunichino alle persone che poi verranno a vedere gli spettacoli, che poi parteciperanno agli eventi. Noi crediamo inoltre che questo lavoro che è passato attraverso il festival, e poi attraverso esperienze come quella dei Visionari, abbia arricchito il nostro lavoro di drammaturghi e di creatori di spettacoli, ci abbia reso ancora più consapevoli dello sguardo dello spettatore, e quindi della comunità e quindi dell’altro.

La vostra mi sembra un compagnia di ricerca molto attenta al mondo che la circonda, capace di costruire relazioni feconde per la vostra e per l’altrui creatività? Questa apertura e disponibilità è un tratto che vi riconoscete?

Come persone, e questo vale anche per Luca, noi siamo molto disponibili, molte aperti a tutto ciò che può accadere, non soltanto nell’arte ma anche nella vita. Ci piace molto viaggiare e ci piace molto viaggiare nell’imprevisto, nell’improvvisazione, nella scoperta e dico viaggio, anche se non è propriamente lavoro, perché il viaggio racconta un po’ il modo di essere delle persone, secondo me. A seconda di come si viaggia, infatti, ciascuno racconta anche un po’ chi è nella vita. Questa nostra attitudine, che è personale, abbiamo cercato di portarla anche nel lavoro, o forse nel lavoro semplicemente porti le tue motivazioni più profonde, è vero il contrario. Tutto questo si riflette nelle cose che facciamo come drammaturghi, e che, ad esempio, Luca cerca di ricreare nel rapporto con gli attori che metteranno in scena i nostri lavori. Ma ancor prima, nel lavoro di scrittura e di drammaturgia, c’è un dialogo sul presente e di raccolta di un materiale che è sempre in fieri. E questo proprio perché nei nostri lavori cerchiamo di raccontare le cose mentre accadono, per cui dobbiamo sempre stare in ascolto. È quello in fondo che, in Toscana, abbiamo cercato di fare con Kilowatt. Ossia un ascolto con la comunità di San Sepolcro, con il territorio che è il nostro primo referente, che però non sia soltanto un pour parler, perché è bello oggi parlare di partecipazione, di coinvolgimento del territorio, ma per noi è qualcosa che è partito già dal 2006, con i primi progetti, anche se ancora non li chiamavano come oggi in quanto è una consapevolezza che è venuta successivamente. Questo anche per quanto riguarda il modo con cui lavoriamo con la nostra squadra, modo che cerchiamo sia una trasmissione di conoscenze reciproca, e poi con i nostri colleghi. Quindi anche al di fuori del territorio di San Sepolcro ci piace condividere progetti ed essere all’interno di reti, ci piace uno scambio di idee che diventi anche qualcosa di molto concreto. Però crediamo che questa sia la strategia giusta per diventare più forti, piuttosto che arroccarsi e rimettere sempre la palla al centro.

Dopo “La lotta al terrore”, che ha avuto un buon successo, anche il vostro ultimo spettacolo “Piccola Patria” affronta il tema della frizione ormai quasi insostenibile tra locale e globale, con riflessi sul tema dell’accoglienza e quant’altro ad essa collegato. Pensi che sia un problema che riguarda anche voi, tra comunità di riferimento e quella virtualità che supera ormai ogni frontiera?

Diciamo che sia “Piccola Patria”, che il lavoro che l’ha preceduto “La lotta al terrore”, ma anche il terzo e prossimo che è ancora in fase di elaborazione, è nella fase di scrittura, e che si chiama al momento “Le Volpi”, sono in effetti per noi una sorta di trilogia che vuole riflettere sulla contemporaneità ma partendo, come sempre, da un punto di vista molto locale. Sono cioè piccole realtà, piccole comunità, piccoli paesi da cui si racconta qualcosa che però, come dicevi tu, va molto al di là del confine del piccolo. Da una parte anche noi veniamo da una piccola realtà come questa di San Sepolcro, in cui da tempo non abitiamo più ma in cui da sempre lavoriamo. E anche le nostre famiglie vivono in cittadine limitrofe, per cui noi conosciamo molto bene quali sono le dinamiche, sia in positivo che in negativo, ma soprattutto in negatvo, poiché è nel negativo che spesso nasce un conflitto che stimola uno spettacolo. Noi dunque le conosciamo bene, e conosciamo bene le relazioni quando sono inserite in un contesto piccolo. Al tempo stesso noi cerchiamo sempre di creare delle storie che partendo dalla piccola realtà che conosciamo, vadano oltre e riflettano nel complesso la società in cui viviamo, quella italiana, ma anche quella euopea e almeno occidentale. Sono dinamiche per cui, partendo da storie molto personali, familiari quasi, poiché nate in contesti appunto piccoli di provincia, queste storie raccontano qualcosa che va oltre. C’è questa frase di Ernesto De Martino che a me e a Luca piace tantissimo, che dice che, per essere veramente internazionali, bisogna avere un piccolo mondo in testa. Noi la sentiamo molto nostra in quanto veniamo dalla provincia pur abitando a Roma, e alla provincia torniamo con il nostro lavoro nutrendoci anche di quell’energia buona, sana che la provincia dà, ma al tempo stesso vivendo in una metropoli come Roma e viaggiando molto, sia con i nostri lavori sia per i molti progetti che abbiamo in dimensione europea, cercando cioè di aprirci sempre un po’ di più per portare appunto questo nostro essere provinciali, e lo dico senza nessuna sfumatura negativa e positiva ma come dato di fatto, in un contesto internazionale. Le due cose si nutrono a vicenda per noi, non è che la provincia ha bisogno dell’internazionale o viceversa.

Al riguardo, lavorare spesso con i medesimi interpreti fa di voi quasi una compagnia stabile. Diventare anche con il tempo una compagnia cosiddetta di “repertorio” rientra nei vostri interessi?

Noi siamo una compagnia senza attori fissi. Quando è nata eravamo in tre membri, di cui due erano Luca ed io. Poi noi due siamo passati ad altri ruoli, ad altri sguardi e interessi sulla creazione, e da allora, di progetto in progetto, abbiamo lavorato con vari attori. È vero quello che dici tu sicuramente Simone Falloppa lavora con noi da molti anni, ed è uno dei tre interpreti sia della “Lotta al terrore” che di “Piccola Patria”, e questo vale anche per Gioia Salvatori e Gabriele Paolocà. La prima volta che abbiamo lavorato con loro è stato con “Lotta al terrore” e ci è piaciuto molto il loro modo di intendere e comprendere il nostro modo di lavorare. Si è creato un bello scambio, poichè tutti e tre sono anche autori e interpreti dei loro lavori, sono dei creatori. Tutto questo arricchisce molto il nostro lavoro, ma quello che immaginiamo ora è di non volere degli attori fissi ma di cercare di volta in volta persone nuove con cui collaborare in base al progetto di quel momento e della storia che dobbiamo mettere in scena. Quindi al momento questa stabilità ci sembra più corrispondere appunto ad un progetto del momento che ad una scelta. Tra l’altro, come si diceva, questo nuovo spettacolo che chiuderà la trilogia, per ragioni semplicemente anagrafiche di età dei personaggi, al momento comporterà la ricerca di nuovi attori e nuove attrici. Ma tutto questo è comunque ancora in fieri, in quanto abbiamo appena terminato il lavoro di scrittura e tutto può essere ancora cambiato.

Scrivete insieme o separatamente tu e Luca?

Abbiamo delle tappe in cui lavoriamo separatamente, poi ci si raccorda in questo percorso individuale. Lavoriamo insieme alla scrittura, nel senso che concepiamo insieme il progetto dello spettacolo, ne parliamo molto insieme. Poi materialmente sono io che scrivo gli spettacoli, nella stesura dei dialoghi e per definire i personaggi, però ad ogni momento di scrittura c’è il raccordo con Luca che la rivede e la esamina per darmi le indicazioni più prettamente registiche, di messa in scena da una parte, ma dall’altra anche per individuare determinati snodi drammaturgici. Ad esempio se un dialogo va troppo in fretta ovvero se un determinato personaggio non si capisce bene dove lo voglio portare, ecc. Sulla base di quelle indicazioni io poi rivedo il lavoro portandolo ad un compimento il più possibile condiviso nella definizione dei personaggi che poi raccontano la storia in scena. Dunque scriviamo insieme ma con ruoli e competenze diverse.

Siete diventati famosi, come Capotrave e come Kilowatt Festival, per lo sviluppo dell’intuizione dei “Visionari”, gruppi nel pubblico che scelgono e selezionano con voi gli spettacoli partecipando concretamente sia alla fase creativa che a quella organizzativa del vostro lavoro. Quanto, e se, ne è implicato il vostro lavoro più prettamente drammaturgico?

Io penso proprio di sì. Il progetto dei visionari è nato nel 2006 anche dalla necessità di creare un legame con il territorio che non fosse solo superficiale e distratto. Il festival era partito dal 2003 ma eravamo abbastanza inosservati dal territorio, che ci fossimo o non ci fossimo non portava delle reazioni, positive o negative che fossero. C’era nella maggioranza dei casi una certa indifferenza. Questo ci ha indotto a interrogarci molto, a chiederci perché succedeva, e la risposta che ci siamo dati è stata quella di coinvolgere direttamente delle persone della città nella scelta di una quota significativa degli spettacoli. Ancora oggi sono nove gli spettacoli selezionati dai Visionari in piena autonomia, pur coordinati da un lavoro lunghissimo e con passaggi complessi di Michele Rossi. Lui è il community team manager. Con passaggi che, nell’esame dei quasi quattrocento video che sono arrivati quest’anno, assomigliano quasi ad un torneo, come fossero gli Europei di calcio, con gironi, quarti e semifinali. Luca ed io comunque ce li riguardiamo tutti, soprattutto per avere una visione di quanto accade nel teatro italiano ed in quello internazionale, ma anche per guidare i loro processi, perché magari può essere loro sfuggito un lavoro che secondo noi merita un approfondimento ed una seconda visione. Però alla fine loro scelgono in autonomia, talora anche in conflitto con noi. Infatti nelle riunioni finali, che portano alle scelte definitive e a cui noi partecipiamo, non sempre noi siamo d’accordo, ma l’ultima parola è comunque la loro, non è la nostra. È la regola del gioco e questo porta alla seconda parte della tua domanda, cioè ad un rapporto diverso con chi ci guarderà. Noi non pensiamo che lo spettatore abbia il dovere ovvero il diritto di dire all’artista quello che deve fare, però è uno sguardo necessario, perché è uno sguardo che va a completare un’opera. È inutile che facciamo un’opera che parla a noi stessi o che parla solo agli addetti ai lavori. Manca un pezzo, manca il pubblico vero, il pubblico che è appassionato, e secondo noi questo dialogo va ripreso, va ripreso come festival, come rassegne, in tutto il mondo dello spettacolo dal vivo, soprattutto quello che fa ricerca ma non solo, e va ripreso quando si crea una propria opera. La domanda che Luca ed io ci poniamo costantemente è: questa cosa che raccontiamo e che per noi è urgente e necessaria, lo è anche per il pubblico, per le persone che lo verranno a vedere,? E se lo è, come, in questo passare attraverso la nostra visione, noi passiamo interagire con la loro visione? In quale forma, qual’è cioè il linguaggio migliore, quale è la forza che puoi trasmettere? Questo secondo me viene ancor prima della forma del linguaggio. Qual’è la forza che si vuol passare con questo racconto, quale è il modo per andare oltre, oltre noi, oltre gli attori, oltre le scelte registiche e di illuminotecnica? Questa domanda noi l’abbiamo molto presente e credo che negli anni sia diventata molto più presente che nel passato. Penso che questo nasca dallo scambio che noi abbiamo sempre con gli spettatori. È difficile trovare un equilibrio tra quello che uno spettatore ti restituisce e quello che tu vorresti restituire a lui. Però è dialogo.

A proposito di quanto ci siamo fin qui detti, mi viene in mente quanto scriveva Walter Benjiamin nel saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. In sostanza cioè, egli rilevava che ad esempio nel linguaggio cinematografico (e poi televisivo diremmo noi) il medium è lo stesso strumento tecnico di ripresa per cui l’attore, cito, “perde la possibilità, riservata all’attore di teatro, di adeguare la sua interpretazione al pubblico nel corso dello spettacolo”. È tipico il caso dei grandi critici del 900, da Gramsci e Gobetti, di andare per più repliche agli spettacoli di Eleonora Duse, poiché ogni sera era ‘diverso’. Questo per dire che c’è un rapporto estetico, contingente ma non subordinato, tra attore e pubblico, una interazione che spesso la sovrapposizione dei linguaggi e delle sintassi tende a far dimenticare, ma che rimane unico e imprescindibilmente legato alla cosiddetta ‘presenza’. C’è una ricaduta che solo così può accadere, in quanto se non c’è pubblico non c’è teatro.

Io sono assolutamente d’accordo. Tutte le opere d’arte che siano un film, che siano un libro o un dipinto, hanno bisogno di qualcuno che le guardi, altrimenti non esistono. Ci sono forme d’arte che sono delle esperienze individuali, ad esempio la lettura di un libro, o anche la visione di un dipinto o di un film. Io credo però che anche queste forme d’arte, che non hanno uno scambio a tu per tu con chi le ha create, acquistino un valore diverso nella collettività. Vedere un film in casa da soli, come è capitato spesso in questo periodo di pandemia, è una esperienza molto diversa dal tornare in sala, come ho cercato di ricominciare a fare in questi ultimi giorni il più possibile, e vedere il film insieme ad altri spettatori, perché comunque ti influenzano. Stessa cosa vedere un dipinto da solo, ovvero in un museo o anche insieme a tre gruppi di turisti che si accalcano sullo stesso dipinto, sono esperienze che cambiano, ciascuna, la nostra visione. In teatro, nello spettacolo dal vivo, che si chiama così, e può sembrare una banalità, perché in esso c’è qualcosa di vivo, in carne ed ossa sia in chi trasmette l’opera d’arte, gli attori, sia in chi la guarda, il pubblico cioè, questo è imprescindibile. In teatro mai una replica è la stessa, mai una serata del Festival è uguale alle altre serate del Festival, mai la visione di uno stesso spettacolo all’interno del festival nella stessa giornata, e ce ne sono sei o sette riprese, è identica l’una all’altra, perché ogni volta si crea una sinergia diversa, come con Eleonora Duse che hai citato. Questa è la cosa che mi commuove di più nel teatro, mi commuove sempre. Quando vado a teatro e vedo una cosa che anche non mi piace ho sempre un grande rispetto, poiché dietro c’è sempre un lavoro enorme. Chiaramente quando un artista fa una cosa che non piace è il primo a dispiacersene, per cui non mi alzo mai a metà spettacolo, mentre per un film lo faccio perchè c’è un distacco. A teatro mi sembra quasi una violenza di branco. Perché tu come pubblico sei molto più forte di chi sta in scena, gli attori essendo in quel momento molto vulnerabili. Poi dopo lo spettacolo, quando in un certo senso siamo tornati alla pari, allora c’è anche il diritto, e come colleghi e direttori di festival il dovere, di esprimere le tue perplessità, quando ce ne sono, come anche il tuo entusiasmo, però dopo. Quando siamo lì in platea no. È una forma di rispetto in quanto l’artista sul palcoscenico è nudo, senza protezioni, e cerca di ascoltare quello che il pubblico comunica nel corso della replica, e quando ha la sensazione che il pubblico sia assente allora l’attore si deprime, oppure cerca di rimotivarsi per portarlo con sé, quando la cosa funziona. Questa è la forza del teatro, che è insostitubile come dici tu. Va bene la commistione di linguaggi, noi abbiamo lavorato anche con il digitale per le residenze, però tutto questo lo affianchiamo, non lo sostituiamo. Ora che è finito il lockdown non è che le residenze digitali finiscono, continuano ma è un altro percorso. Non è un sostituivo dello spettacolo dal vivo, perchè non può esserlo, non è più quella cosa, è un’altra. Questo dura da migliaia di anni, potremmo dire, e alla sua base c’è qualcosa di molto naturale, ed è la comunicazione interumana. Al di là di tutte le sovrastrutture multimediali con cui articoliamo oggi la comunicazione, e che comunque l’arricchiscono come in questa nostra conversazione, il teatro è un rito molto, molto antico ed è la natura dell’uomo. È “adesso ti racconto una storia e io ti ascolto”, non si può cambiare ciò che è così essenziale e naturale, e neanche si deve.

Forse si tratta solo di recuperare al teatro il ruolo anche sociale che ha avuto e che, secondo me, deve avere di nuovo. Ma tornando al Festival di quest’anno, sono curiosa di sapere come lo avete costruito, viste anche le difficoltà causate dalla pandemia e dalla conseguente difficoltà a incontrarsi e scambiarsi esperienze che il digitale ha solo in parte surrogato. Come le avete affrontate e superate?

Non a caso abbiamo titolato questa edizione del Festival “Questa fervida pazienza”, poiché da una parte, e parlo del nostro settore, c’è voluta una grande pazienza dal punto di vista lavorativo. Va da sé che questa pazienza l’hanno avuta anche altri settori, altrettanto penalizzati, e poi spesso sono state toccate molte persone, nella loro stessa vita, da vicende drammatiche che richiedono, per essere superate, qualcosa che va oltre la stessa pazienza. Detto questo, pazienza ci pareva una parola che indica quello che abbiamo cercato di mettere in pratica in tutti questi mesi. Accanto alla pazienza, però, ci sembrava che un certo fervore, negli spettatori che pure non potevano partecipare, ci fosse. Per fortuna nei mesi passati era comunque possibile tenere aperti i teatri per fare prove e, dunque, anche per fare residenze artistiche. Noi abbiamo passato l’inverno nel nostro Teatro della Misericordia, ma anche in un altro teatro che ci è stato dato in gestione a Castiglion Fiorentino nella provincia di Arezzo, e abbiamo cercato di far venire le compagnie che cercavano spazi per provare e per portare avanti il loro lavoro. Ovviamente seguendo tutte le norme di sicurezza. Tutto questo è stato molto bello perché, anche se era un lavoro nascosto al pubblico, comunque c’era. Inoltre abbiamo cercato di rimanere in contatto con tutte le nostre reti, sia quelle più lontane come il progetto europeo, per portare avanti, on line, la nostra progettualità. Abbiamo poi lavorato per tutti questi mesi con la comunità di Sansepolcro e anche con le altre comunità di riferimento extra italiane, e pure questa è stata una esperienza molto bella. Si è creato anche un nuovo laboratorio internazionale con adolescenti di Sansepolcro, che ora viene fatto in presenza ma che fino a maggio era on-line. Tutto questo ci ha dato molta energia, nonostante ci chiedessimo come potevamo raccogliere concretamente queste energia attivando un laboratorio solo on line. Invece gli adolescenti che hanno aderito avevano così tante energie da esprimere che sono esplose comunque. Quindi noi e i nostri colleghi siamo rimasti fervidi. Quindi la costruzione del Festival ha avuto ovviamente delle complessità, complessità innanzitutto nel contattare le compagnie internazionali ma anche quelle italiane. Ha voluto anche dire affidarsi e fidarsi di lavori che, nel momento in cui venivano proposti, non erano ancora del tutto compiuti. Se si mandava un vocale ci dicevano che era per ascoltare un pezzo dello spettacolo, oppure ci dicevano: ti mando questo piccolo video sperando poi di poter ritornare con gli attori che ora sono bloccati in varie località. Questo ci ha dato un po’ il senso di costruire il festival, di costruirlo cioè “come se”, poiché come per l’anno precedente la macchina organizzativa si è concentrata sui mesi di marzo e aprile, ancora molto incerti. E abbiamo visto che la risposta delle compagnie era al livello della nostra urgenza. C’era questa voglia reciproca di rischiare e di tornare in scena e dunque di fare, da entrambe le parti, uno sforzo, e devo dire che in questo è stato veramente preziozo il lavoro che ha fatto e fa la nostra squadra. Perchè lavorare in questa grande incertezza, di fronte a eventi che non puoi prevedere come i contagi, ha creato difficoltà anche a livello di motivazioni, cioè riguardo al senso che poteva avere questo gran lavorare. In teatro siamo molto scaramantici e lo saremo fino all’ultimo giorno del festival, e quest’anno anche di più, però devo dire che se è stato più difficile quest’anno trovare le motivazioni, però ci siamo comunque riusciti, con la nostra squadra di lavoro e anche nei rapporti con i nostri colleghi. Non abbiamo in sostanza lavorato di meno, anzi abbiamo lavorato di più in quanto c’era sempre qualcosa di più da fare, ci dicevamo, per farci sentire presenti, per tenere viva questa necessità che non era solo nostra, ma anche del pubblico. Noi in questo periodo infatti abbiamo anche fatto nuovi progetti di partecipazione e di coinvolgimento a Sansepolcro, oltre ai Visionari che hanno lavorato on line tutto l’anno comunque. Abbiamo creato un nuovo gruppo di adolescenti a Sansepolcro, che abbiamo chiamato Videoyoung, giovani visionari, poi abbiamo avviato anche un altro progetto in cui un gruppo di spettatori di Sansepolcro e un gruppo di spettatori di Vienna si sono incontrati on line per mesi, al fine di arrivare a scegliere un artista cui dare, come si usava una volta, la commissione di un opera, la stessa, da realizzare qui a Sansepolcro e a Vienna. È stata una esperienza molto stimolante in cui queste persone chiuse in casa si incontravano insieme a noi per raccontare le proprie città, e raccontare i propri bisogni che erano molto più simili di quanto si sarebbe potuto immaginare, nostante le differenze tra Sansepolcro e Vienna. Era un modo per tenere viva la comunità, la nostra presenza e anche per prendere energia. Noi infatti diamo energia ma ne riceviamo anche, tantissima da queste persone che partecipano ai progetti che proponiamo. Per me, anche personalmente, sono stati vitali questi passaggi in certi momenti di scoraggiamento, tensione e paura, anche avendo la responsabilità di una squadra. Non ti puoi permettere di cedere.

Un’ultima domanda. Voi portate in tutta Italia i vostri spettacoli. Che idea vi siete fatta in questi anni delle prospettive concrete del teatro italiano in generale e del vostro in particolare?

Noi è da tanti anni che facciamo il lavoro di Compagnia. In questi anni abbiamo visto che molti spazi che erano importanti, per i territori di riferimento e per le compagnie che ospitavano, si sono persi. Questo perché non sono più riusciti ad alimentare il lavoro che facevano, e spesso solo per questioni economiche. Non mancavano cioè idee ed energie, ma sono venute a mancare le risorse. Questa è una cosa che abbiamo notato negli ultimi anni, spazi importanti che erano anche nostri punti di riferimento, non ci sono più. Ci sono tante situazioni interessanti che però, secondo noi, non hanno il giusto supporto istituzionale. Alla base di questo, probabilmente, c’è, almeno nella mia personale visione, la paura che l’Italia ha della meritocrazia, e non soltanto a Teatro, c’è il non avere il coraggio a livello più ampio, istituzionale, di distinguere tra chi merita e chi non merita. Tra chi campa di rendita e chi invece si sta costruendo un suo percorso nuovo e meriterebbe maggiore attenzione. C’è l’esigenza di chiedere di più ai grossi Enti Teatrali, di chiedere un lavoro diverso sul pubblico e sui territori, di fare quello scouting che solo una grossa realtà può fare. Al riguardo i festival sono stati caricati tantissimo di aspettative, anche in questo loro aprirsi a linguaggi diversi, e diventare luoghi di incontro e di scambio, luoghi che però alla fine diventano fuochi, ma poi non c’è chi, a partire da quei fuochi, faccia un lavoro più articolato durante tutto l’anno, accompagnando artisti anche molto bravi ma che però alla fine si perdono. Questo lavoro dovrebbero farlo le Istituzioni, ma poi non lo fanno. Noi facciamo i festival, facciamo teatro, ma non siamo promotori, non siamo produttori. E anche la bellezza di essere un centro di residenze ci permette di valorizzare, per quel che ci compete, gli artisti ma ci costringe anche a rimarcare che siamo appunto questo e non dei produttori o solo promotori del loro lavoro. Questo lo sentiamo molto come Compagnia, e infatti abbiamo scelto di tenere i due percorsi, la Compagnia e il Festival, separati, tanto che evitiamo di presentare i nostri lavori al Festival. Ci piace evitarlo, poiché lo riteniamo un comportamento eticamente corretto, e quando debuttiamo preferiamo debuttare altrove. Per cui, per quanto i due percorsi, come è emerso dalla nostra conversazione, talora si sovrappongono, riteniamo però debbano andare, da certi punti di vista, paralleli. Questo a volte ci penalizza come Compagnia, perchè spesso ci dicono: non vi diamo la residenza perché voi già siete una residenza, oppure non vi invitiamo al nostro festival in quanto voi già avete il vostro Festival. Questa a volte è stata una fatica aggiuntiva. D’altra parte il nostro lavoro di Direttori ci permette anche tutta una serie di relazioni e di contatti che per una Compagnia non è sempre facile mantenere. Dunque c’è una controparte positiva. Non sempre, però, questo doppio ruolo ha facilitato alcuni passaggi e come Compagnia, solo Compagnia, vediamo questa difficoltà. Perciò, parlando anche con altri colleghi, vorremmo il coraggio di un cambiamento vero, meritocratico appunto anche su criteri oggettivi. Pur se ogni commissione che ti debba scegliere non può che operare in parte su criteri soggettivi, e ben vengano, secondo me non è però così difficile trovare criteri oggettivi. Scendere nel merito, che non vuol dire il mi piace o non mi piace della qualità, ma vedere anche qual’è il percorso, quale è l’idea che regola una data scelta. Questo può diventare un criterio abbastanza oggettivo. Cioè quanto mi apro, quanto investo sulle nuove generazioni, quanto e in che modo dialogo con l’Europa, qual’è il mio rapporto con il territorio ecc? Noi come Compagnia siamo andati anche in luoghi dove c’era pochissimo pubblico, mentre altre che magari avevano meno mezzi e meno energie di staff, in situazioni ove tutta una comunità viva e vitale rispondeva con energia alle sollecitazioni degli organizzatori. Questo succede varie volte e ti dispiace, perchè dici che non giusto che questo lavoro che viene fatto con serietà da determinati gruppi non venga riconosciuto, mentre magari venga premiato un lavoro che non c’è, non c’è più, non c’è abbastanza in altri. Questa è la riflessione che io e Luca ci troviamo a fare alla fine di ogni replica, in un senso o nell’altro. Io sono comunque positiva e ottimista, succedono tante cose belle nel teatro italiano, tantissime. Ci sono idee, progetti, nuove reti, voglia di crearsi nuovi spazi, alternativi se non ci sono quelli istituzionali, di fare festival, di fare rassegne. Però a volte si è lasciati soli dalle istituzioni, a tutti i livelli, partendo da quelle locali fino al livello ministeriale.

Forse la crisi generata dalla pandemia ha portato in superficie problemi che già c’erano, rendendoli solo più drammatici. Si è così determinata la necessità, credo, di affrontarli in qualche modo, a partire dalla condizione degli artisti che sono anche lavoratori e che se fanno quello che fanno per passione, non per questo non devono avere il diritto di sopravvivere anche economicamente con dignità. Le reazioni e le proteste che in questo periodo di chiusura si sono avute, dunque, mi auguro portino alla ricerca di soluzioni positive anche a livello normativo. Comunque sono come te fiduciosa poiché la crisi, lo dice la parola stessa, tende a generare una riflessione che può migliorare le cose.

Sono in questo assolutamente d’accordo con te e credo che ora ci sia una grande opportunità di fare quei cambiamenti di cui si parla da tanto. Credo anche che una parte di responabilità sia anche dei teatranti, degli operatori e dei professionisti. Da un lato questa crisi ha portato una maggiore consapevolezza anche sulle tematiche dei diritti del lavoro, ove c’era più disattenzione e superficialità perché, come sempre, finché la macchina va avanti io in qualche modo arrivo in fondo. Ma nei momenti di crisi emerge tutta la debolezza di non stare lavorando con la dignità assicurata da tutele adeguate. Dall’altra mi auguro che questa grande attenzione nei nostri confronti, anche in televisione che ha parlato di noi come non era mai accaduto prima, grazie anche al modo con cui certe proteste sono state portate avanti, e qui sono di nuovo d’accordo con te, non vada dispersa in futuro. Se poi la Società è un po’ disattenta verso quella che, come dici tu, è una passione ma è anche un lavoro, ed un lavoro che non è solo di messa in scena ma anche un lavoro non visibile al pubblico che sta dietro la messa in scena, allora spetta anche a noi mantenere aperto questo discorso. Qui di nuovo si ritorna un po’ all’inizio di questa nostra conversazione, e al saper parlare con il resto della società, al non arroccarsi dentro noi stessi e dentro le nostre opere, in una sorta di autoreferenzialità non soltanto da un punto di vista artistico ma anche da un punto di vista sociale e politico. Perchè questa, nonostante tutto, è una grande occasione che non risuccede, quindi non va persa, e se si perde poi alla fine si perdono le forze. Lo sappiamo il teatro è fatto di tanti orti ma è brutto che ciascuno si chiuda nel proprio.
www.liminateatri.it, 26 febbraio 2016

Al Teatro dell’Orologio di Roma, dal 16 al 28 febbraio, sono andati in scena gli ultimi due lavori firmati da Luca Ricci: Piero della Francesca. Il punto e la luce e Lourdes.
Il regista è stato nel 2003 il fondatore della compagnia CapoTrave ed è il direttore artistico del Festival Kilowatt, nato nello stesso anno nella cittadina toscana di Sansepolcro e divenuto nel tempo un indiscusso punto di riferimento delle nuove compagnie di teatro contemporaneo, danza, arti performative e musica. E, mi sento di affermare, anche un vitale luogo di scambio in cui ogni anno artisti, critici, studiosi e “visionari” (nello specifico non addetti ai lavori, ma semplici cittadini mossi dalla passione che vengono coinvolti nella selezione delle opere da proporre al pubblico) si danno appuntamento per tessere la multiforme trama di sguardi e di prospettive per quell’“incontro magico” che è il teatro.
Dei due spettacoli presentati nella capitale, ho visto soltanto Lourdes . Per tale motivo, invece di offrire ai lettori di Liminateatri.it una sola recensione, ho ritenuto opportuno rivolgere a Luca Ricci alcune domande, che potessero far comprendere nella sua interezza un progetto che vede nascere due messinscene nello stesso anno (il 2015) e che, forse, non a caso vengono proposte (o almeno così è accaduto nel Teatro romano) nella medesima serata.


Inizierei proprio da qui: c’è una coincidenza di “urgente espressività” tra Piero della Francesca e Lourdes ?
Sono due progetti che il caso ha messo l’uno vicino all’altro: da un lato c’è il desiderio – mio e di Lucia Franchi – di confrontarci finalmente con il grande genio creativo del nostro territorio, cioè Piero della Francesca, anche in occasione del nostro insediamento residenziale nel nuovo Teatro alla Misericordia di Sansepolcro, un luogo che per trecento anni è stato una chiesa all’interno della quale era custodito il Polittico della Misericordia di Piero; dall’altro lato c’è stata l’occasione offerta da “I Teatri del Sacro”, la selezione biennale promossa dalla Federgat per le opere che affrontano temi legati alla spiritualità e al sacro e per la quale ho voluto lavorare su un libro del 1998 che avevo amato moltissimo, cioè l’omonimo Lourdes di Rosa Matteucci, pubblicato da Adelphi.
Piero è un progetto sul quale abbiamo lavorato per due anni e che è arrivato a compimento nell’estate 2015. L’idea di Lourdes è nata in risposta al bando della Federgat nell’estate 2014 e dopo un anno di lavoro e prove lo spettacolo è arrivato al debutto nella medesima estate 2015.

Quale l’idea iniziale?
In entrambi gli spettacoli raccontiamo una storia, cioè una vicenda piuttosto lineare che ha un inizio, un centro e una fine.
Abbiamo un eroe al centro di ogni storia: in Lourdes è la Maria Angulema interpretata da Andrea Cosentino che parte per Lourdes con lo scopo di litigare con il Padreterno, in Piero della Francesca l’eroe che muove l’azione drammaturgica è lo stesso Piero della Francesca che però non appare mai sulla scena, ma è continuamente evocato nella relazione che si instaura tra il suo aiutante Paolo e Giovanna, la giovane cognata dello stesso Piero. Anche in questa seconda opera c’è una continua lotta con il mondo circostante, che qui è il microcosmo provinciale della Sansepolcro della metà del Quattrocento incapace di comprendere la portata innovativa della rivoluzione pittorica e artistica di Piero.
In fondo sono due storie che mettono al loro centro individui isolati in lotta con il contesto in cui si trovano a operare: Piero combatte contro le convenzioni e i conservatorismi del suo tempo, Maria si oppone a una pletora di vecchie bizzose, prepotenti, invidiose, ma ancor di più si mette contro Dio perché permette l’esistenza del male e del dolore e, andando ancora più avanti, lotta con se stessa e con le propria presuntuosa ignoranza riguardo alle faccende dello spirito.

Cosa ha contrassegnato, nello specifico, il percorso drammaturgico e registico dei due lavori?
Sono due operazioni molto diverse tra loro.
La drammaturgia di Piero è una lunga opera di cesello, compiuta assieme a Lucia Franchi, come nostro solito, per studiare il contesto storico, trovare la linea di interpretazione drammaturgica, inventare i due personaggi presenti sulla scena, dare respiro a questa assenza-presenza di Piero. La regia, poi, mi ha portato a confrontarmi con due attori di notevole talento, ma giovanissimi (Barbara Petti e Gregorio De Paola) e con una scenografia virtuale di immagini video girate da noi stessi alternate ad elaborazioni grafiche.
L’adattamento drammaturgico di Lourdes parte invece da un romanzo, dunque il personaggio centrale era già lì, bello e fatto. Gli altri personaggi li abbiamo ripresi dal libro o inventati, modificati, adattati. In questo caso c’è il consueto lavoro per cui la forza di una scrittura va tradotta nella forza della scena: non è mai un’operazione del tutto lineare, i ritmi della pagina non sono quelli della scena. Sono completamente differenti, ma non si naviga nell’oscurità come quando si scrive un soggetto originale.
Quanto al lavoro registico, su Lourdes mi sono potuto basare sulla presenza di due professionisti con una grande esperienza alle spalle: Andrea Cosentino e Danila Massimi, anche autrice delle musiche nonché esecutrice. Lì ho compiuto una scelta di essenzialità. Una scenografia semplice composta da una sorta di sacello, che evocasse la tomba paterna da cui tutta la storia prende le mosse, ma anche che ponesse il personaggio più in alto rispetto a una discesa verso la salvezza che compie alla fine.

Condividi che sia la “rottura deformante” la matrice costruttiva di entrambe le messinscene? In Lourdes è la dissacrante scrittura del romanzo d’esordio di Rosa Matteucci a cogliere costantemente di sorpresa lo spettatore con l’insolita comicità e l’audacia linguistica che contraddistinguono l’impianto narrativo dell’opera dell’autrice. In Piero della Francesca è, forse, il suo andare “contro le convenzioni” a generare quella “favola storica” di cui parli e in cui l’innovazione del pensiero dell’artista non fa che generare dubbi e perplessità al punto da renderli tragicomici, e non soltanto per i suoi contemporanei?
Sì, in entrambi i casi la percezione dei due “eroi” è difforme da quella del contesto circostante e da qui nasce la comicità dell’uno ( Lourdes ) e l’ironia dell’altro ( Piero ).
Per capirci cito un esempio presente in Piero della Francesca : il giovane assistente Paolo cerca di spiegare a Giovanna l’innovazione apportata dagli studi dell’artista sulla prospettiva. Per farlo, prende in mano una sedia e spiega che quella sedia sembra uguale per tutti, ma non è così. Giovanna, con ironia, gli chiede come possa accadere che la sedia cambi, e allora lui le spiega che la sedia si ingrandisce e si rimpicciolisce a seconda che la si guardi da vicino o da lontano e che essa, nella sua ingenua semplicità, sarebbe la base degli studi di Piero sulla prospettiva. Da qui nasce un gioco buffo di fraintendimenti in base al quale Giovanna domanda che senso abbia stabilire regole per ingrandire o rimpicciolire le cose in base al proprio capriccio. Insomma, si capisce che è lo scarto percettivo rispetto alla consistenza del reale a determinare l’isolamento degli “eroi” e a porli in situazioni che a volte danno vita a equivoci divertenti, altre volte a drammatiche solitudini.

Ultima curiosità: come è stato lavorare, da “regista”, con Andrea Cosentino? Un attore che si distingue di solito per una naturale autonomia a “ritagliarsi sulla pelle” i personaggi che interpreta? Mi è sembrato di notare, infatti, che “vivesse di vita propria d’attore”, al di la della regia e al punto che persino le suggestive creazioni musicali eseguite dal vivo da Danila Massimi risultassero una forzatura per scandire i tempi della narrazione.
Andrea, quando lavora in proprio, è un artista che si cuce i suoi personaggi sulla pelle a tal punto che non scrive mai i copioni dei suoi spettacoli, ma modella le sue storie sul palco, prova dopo prova. In questo caso, invece, ha accettato di lavorare a partire da due livelli di testo: quello letterario della Matteucci che abbiamo letto tante volte assieme, e poi il mio adattamento che portavo di giorno in giorno ad Andrea e che lui imparava a memoria con un processo che gli era del tutto nuovo, come attore. Se poi l’impressione finale è che quei personaggi paiono usciti dalle sue storie consuete, lo prendo come un complimento: significa che io – come drammaturgo e regista – e lui – come attore – abbiamo reso viva la materia letteraria dalla quale siamo partiti.
Rispetto agli innesti musicali di Danila Massimi, per me non hanno la funzione di scandire la fine di una scena e l’inizio di quella successiva, ma piuttosto illuminano, fin dall’inizio, la dimensione interiore e spirituale del personaggio di Maria, che anche quando appare più lontana dalla fede e critica verso Dio, ha già dentro di sé quel germe che le permette di aprirsi alla rivelazione finale. Non volevo che questa visione divina arrivasse di sorpresa, ma cercavo qualcosa che la preparasse in una maniera non troppo ovvia. La musica di Danila è come le bricioline di pane lasciate da Hansel e Gretel lungo il loro cammino: c’è chi ci passa sopra senza notarle, c’è chi le scorge come una traccia verso la salvezza.
www.recensito.net, 24 ottobre 2013

Un incontro interessante, entusiasmante e coinvolgente quello con Luca Ricci, brillante e coraggioso regista teatrale che ama profondamente il proprio lavoro, che non ha paura di investire in progetti inusuali, coraggiosi, che cerca sempre di superare i limiti del conosciuto per intraprendere sfide sempre nuove, sostenuto da un grande talento e tanto impegno.
Una passione smisurata quello di Luca per il teatro, una forma d’arte ma soprattutto un’espressione complementare della vita, un mondo che gli permette di dare identità nuova a qualcuno o a qualcosa.
Nel 2003 ha fondato con Mirco Ferrara, Lucia Franchi ed Enzo Fontana la compagnia Capotrave; da allora anno dopo anno ha lavorato a tanti progetti e spettacoli alla ricerca sempre di nuove strade e nuovi mezzi espressivi. Adesso è in scena a Milano al Teatro Litta il suo ultimo spettacolo “Misterman”, del quale firma la regia, interpretato dal bravissimo Alessandro Roja.

Come è nata l’idea di questo spettacolo e come hai lavorato con Alessandro Roja, interprete di scena di Thomas Magill?
Io e Alessandro avevamo lavorato insieme ne “I supermaschi” nel 2007. Da allora lui voleva tornare in teatro con un monologo ma non riuscivamo a trovare un progetto comune; Alessandro proponeva personaggi romani, io invece non ero convinto, volevo cercare qualcosa che lo mettesse alla prova, qualcosa che potesse spostare il suo equilibrio. Per caso mi è capitato questo testo di Enda Walsh e ho capito che poteva essere l’occasione giusta per me e per lui; questo personaggio poteva obbligare Alessandro a trovare qualcosa che fosse fragile e violento insieme, una figura debole che sviluppa una forma profonda di aggressività. Insieme abbiamo lavorato sul testo; io lascio molto spazio all’attore, in questo caso con Alessandro ancora di più perché mi fido di lui. Io non arrivavo mai alle prove dicendo cosa bisognava fare o come interpretare una scena. Ho lasciato che lui fosse libero di trovare le cose; da lì sono partito e ho lavorato su questo, cercando di sistemare degli elementi e riportandolo sul percorso scelto. Alessandro è un attore molto intelligente quindi coglie al volo i suggerimenti e le indicazioni; è molto divertente lavorare con lui.

Il testo di Enda Walsh è un testo difficile ma molto coraggioso da rappresentare, che segue lo spirito degli spettacoli della compagnia Capotrave, alla ricerca sempre della linea di confine tra reale e irreale, tra ciò che si vede e ciò che non si vede; un lavoro complesso quello di portare in scena un testo così.
La nostra compagnia (Capotrave) sceglie testi fuori dall’ordinario, sostenuti dallo spirito di indipendenza che ci contraddistingue. Per me non è il testo che deve adattarsi a te ma tu al testo; io scelgo di lavorare su un testo perché ritrovo in quell’autore e nelle sue parole qualcosa di importante. A me e a Lucia Franchi, con la quale ho portato avanti tutto il lavoro di adattamento drammaturgico del testo di Walsh, interessava molto indagare il punto di rottura, quel sottile confine tra ciò che si vede e ciò che non si può vedere, tra ciò che si dice e poi ciò che si fa. Questa è la prima volta che portiamo in scena un testo di un autore, di solito scriviamo noi i testi dei nostri spettacoli. In “Robisonade” volevamo indagare sul lato b del mondo, il luogo dove finiscono tutte le cose di cui ci liberiamo; in “Virus” (ispirato a “La Peste” di Camus) abbiamo ambientato la scena in una specie di sottosuolo, dove si creavano delle forme di resistenza a un’epidemia che dilagavano nel mondo sovrastante; qui due individui protagonisti si interfacciavano, uno cercando di debellare il virus, l’altro cercando di diffonderlo. Una cosa simile accade in “Nel bosco”, luogo che può rappresentare un nuovo inizio, un’alternativa alla vita quotidiana. Anche in “Misterman” c’è questo luogo sospeso rispetto alla società; ho voluto raccontare, anche se non in maniera non esplicita, un Thomas che scappa dopo aver commesso un gesto atroce e si ritrova solo in questo posto lontano dalla comunità, e la Sala La Cavallerizza del Teatro Litta ben si adatta a questa ricostruzione; qui lui si rifugia ed emerge questa sua costante paura di essere scoperto, trovato. Rivive quasi all’infinito questa giornata tremenda, culminata in un epilogo tragico. Mi interessa indagare quello che non si dice in maniera esplicita. Il teatro questo deve fare, perché ci sono già altri mezzi che possono intrattenere.

Questo spettacolo si inserisce perfettamente nel complesso progetto della compagnia Capotrave che negli anni ha portato in scena spettacoli che vogliono essere non una semplice rappresentazione ma un momento di vita, di condivisione, di riflessione; un momento di confronto con il pubblico.
Io credo molto nella politica, nell’impegno, nel fatto che tutti noi dobbiamo trovare uno spazio di riflessione sul nostro tempo e impegnarci per costruire qualcosa, ciascuno nel proprio ambito; io faccio questo lavoro perché in questo modo contribuisco a modo mio alla crescita e allo sviluppo di un pensiero sociale.

Tu sei anche direttore artistico di “Kilowatt”, un festival dedicato alle compagnie emergenti della scena contemporanea (teatro, danza, arti performative, musica, letteratura, arti visive),un progetto che va al di là delle logiche economiche e punta invece a una profonda comunicazione legata all’arte.
Un festival è un atto politico per eccellenza; è un lavoro fatto con la comunità, in collaborazione con gli enti locali e con la città; è un atto sociale.
Noi ci siamo interrogati su varie tematiche, tra le quali investire in un progetto in un momento nel quale si dà poca fiducia ai giovani. Noi quindi abbiamo fatto dello scouting il nostro punto di forza, cercando, nel nuovo, proposte da valorizzare e far conoscere; un lavoro sicuramente complicato perché è più facile puntare su ciò che è già conosciuto. E’ un progetto sempre in divenire perché ogni anno devi ricominciare da capo; sicuramente è un’attività impegnativa perché bisogna selezionare tanti titoli (quasi 400 i video che riceviamo), quindi il lavoro è lungo e faticoso ma sicuramente molto interessante; bisogna cercare quei lampi di luce che possono essere i nuovi percorsi da seguire e valorizzare
Per noi un altro aspetto importante è lo spettatore; per cercare di coinvolgere la cittadinanza di San Sepolcro (città dove si svolge il Festival) noi abbiamo voluto creare una sezione di spettacoli scelti dai “visionari”, una trentina di persone, non addetti ai lavori, che selezionano i video che arrivano attraverso il bando che Kilowatt pubblica ogni anno (www.kilowattfestival.it, scadenza bando 13 dicembre 2013); sono persone che si incontrano ogni giovedì, discutono e scelgono ciò che li ha colpiti, che hanno amato e che vogliono condividere con il pubblico. Un aspetto fondamentale, nello spirito del Festival, perché qui il teatro ridiventa un orizzonte della loro vita quotidiana.

Subito dopo lo spettacolo “Misterman” qui a Milano il 23, 24 e 25 ottobre tu e Alessandro Roja incontrerete il pubblico; un momento insolito e importante di confronto
Il senso è quello di superare quel falso pensiero per cui uno spettacolo non può essere capito o compreso da tutti; è necessario recuperare l’idea di usare il teatro non come un fine estetico, qualcosa che riguarda solo se stesso ma che riguarda la nostra vita quotidiana e il nostro tempo.
www.altrevelocita.it, giugno 2008

Ci si chiede da ormai tanto tempo in che modo far dialogare arti sceniche e istituzione scolastica. Oltre alla naturale tensione del teatro ad andare incontro a luoghi impuri, tradizionalmente non votati alla tradizione scenica stessa, va considerato il particolare rapporto che potrebbe instaurarsi fra crescita dell’individuo ( e quindi anche in senso scolastico) ed espressione teatrale. Crediamo che il teatro sia un luogo dove l’energia può liberamente essere lasciata fluire e d’altro canto rigorosamente incanalata, il luogo dove l’immaginazione di “alterità” (altri mondi, altre verità, altre realtà) viene reso possibile. Forse uno dei pochi rimasti, con queste caratteristiche, nell’intera società. Il teatro legittima “l’altro” perchè lui stesso è altro, irriducibile a schematizzazioni e inclusioni.
Per questo, se il teatro entra a scuola deve farlo come straniero, come l’avventore di una locanda in un paese sconosciuto: il nuovo arrivatò potrà dialogare, incontrare, stimolare, ma sempre “altro” rimarrà. Per questo il teatro e la scuola possono e devono incontrarsi, e allo stesso tempo devono per necessità rimanere diversi. Il teatro, quello vero, può entrare a scuola come ospite, senza avere nulla a che fare con insegnanti e presidi, i quali dovranno porsi come ponti, o come argini che facilitano un passaggio.
Lo stesso discorso può essere fatto sul teatro scolastico che vediamo. Guai a insegnare il teatro! Dizione, presenza, movimento sono tutte questioni che devono forse essere accennate, ma che non possono e non devono diventare il cuore del lavoro. Così come è insensato pensare che per fare il teatro a scuola si debba prendere un testo e rispettarlo usando i ragazzi come marionette serie: questo non è teatro, ma un’operazione di archeologia che ha creato (e continua a creare) dei “disinnamorati”. Portare a forza i ragazzi a vedere il classico Pirandello in matineè, o costringerli a una disciplina imposta dall’alto per recitare il drammaturgo di turno, equivale a creare persone che a teatro non andranno mai più.
Non si può che elogiare, quindi, il lavoro fatto dal gruppo dell’Istituto professionale Camaiti di Pieve Santo Stefano e dell’alberghiero di Caprese Michelangelo guidato da Luca Ricci della compagnia CapoTrave. Qui, lo spunto di partenza era dato dal dramma satiresco I satiri alla caccia. Storie di passioni dionisiache e irrefrenabili pulsioni, nell’antichità come oggi: le storie di quei ragazzi, convittori alla caccia di un incontro con le ragazze del paese, è la stessa dei Satiri greci. Poco importa dunque la fedeltà a un testo, la filologia, le tecniche teatrali più o meno apprese: questo teatro crea un cortocircuito fra arte e vita, mescolando continuamente i due piani, mostrando in scena una cosa semplice e troppo spesso dimenticata nelle operazioni di teatro scolastico: la verità. In scena ci sono le vite dei ragazzi, i loro modi di parlare, i loro dialetti, le loro movenze (ognuna diversa dalla altre e profondamente “vera”, dunque “bellissima”): in questo modo, e solo in questo, magicamente si presentano anche i satiri di Sofocle e la Grecia del V secolo A.C. Luca Ricci ha saputo porsi all’ascolto, mettendo in rilievo prima di tutto i ragazzi e le loro passioni/pulsioni, riportandole poi in un ambito di disciplina teatrale evidente, in cui una coreografia rigorosa marca l’ingresso delle ragazze, vestite come piccole e provocanti cubiste (proprio come le vediamo un sabato pomeriggio a passeggio nelle nostre città), e un apparentemente anarchico manipolo di ragazzi architetta strampalati piani. Significativa, in questo contesto, la presenza degli insegnanti: non “primi della classe” a prendere gli onori del pubblico per avere condotto un laboratorio teatrale (che non potrà mai essere il loro specifico!), ma sul palco a sudare e a giocare insieme ai loro allievi proprio come impone lo straniero teatro, che di gerarchie e ruoli preesistenti se ne infischia.