CapoTrave

Le Volpi

Convincono i debutti di “Hotel Borges” della Piccola Compagnia della Magnolia e CapoTrave con “Le Volpi”.

Arriviamo al Todi Festival in un caldo pomeriggio di inizio settembre, ultimo fine settimana di festival, per assistere ai lavori di due compagnie italiane: “Hotel Borges”, prima nazionale della Piccola Compagnia della Magnolia, e “Le volpi” di CapoTrave, spettacolo che aveva debuttato a giugno in anteprima nazionale ad Asti.

Sono due lavori diversi e distanti sotto molti punti di vista, ma li accomuna senz’altro una certa felicità per quel che riguarda l’esito scenico. Si tratta di due lavori godibili, affiancati in un solo giorno. Mica cosa da poco. Da un lato (…) 

Dall’altro il lavoro andato in scena al Teatro Comunale – grande sfoggio di gioielli, orologi, tacchi, borse, colori e grandi svolazzamenti di abiti e di dame – che presenta una storia molto italiana, caratterizzata da quel familismo amorale, si direbbe nel linguaggio della sociologia, che pervade tutti gli ambienti che ci circondano, compreso anche il teatro.

(…)
Per quanto riguarda la struttura drammaturgica, “Le volpi” è invece costruito – potremmo dire – in maniera completamente opposta. La scrittura di Lucia Franchi e Luca Ricci niente ha di dadaista od onirico, anzi è ben ancorata al reale e disegna un testo felice, equilibrato e che, soprattutto, va a colpire dove vuole colpire andando a stanare le volpi che si nascondono dentro di noi, pronte a uscire quando serve, soprattutto se si tratta di dare una mano a
parenti e amici.

Così come avviene nella provincia italiana, vera protagonista della pièce. In questo, il lavoro è sorretto dagli attori (Antonella Attili, Giorgio Colangeli e Luisa Merloni), perfetti nelle parti a loro assegnate, così come felice è la scenografia dello stesso Ricci.

Anche questo è certamente un lavoro godibile, veloce e compatto, in cui l’architettura drammaturgica è studiata in ogni minima parte, senza una sbavatura. Ci racconta di una domenica pomeriggio estiva dove, davanti a un caffè, si incontrano per sistemare alcune problematiche un sindaco (Colangeli), una dirigente Asl (Attili) e la di lei figlia (Merloni), che dopo una lunga esperienza all’estero è rientrata al paesello natio e si arrangia con laboratori di arte e iniziative varie, che certo non garantiscono la famosa “stabilità economica”.

Dall’incontro domenicale, tra caffè e biscottini vegani trangugiati a profusione, usciranno tutti con il proprio tornaconto, anche la figlia “dura e pura” che tanto tuonava contro certi costumi. Si accorgerà infatti che gli stessi, addosso a lei, calzano benissimo, addirittura meglio di come sperasse.

Recensione. Le volpi è il nuovo spettacolo di Lucia Franchi e Luca Ricci. I due autori della compagnia Capotrave continuano a scandagliare il sottosuolo sociale della provincia italiana come metafora del Paese; in questo caso si intrecciano opportunità politiche e culturali, favoritismi e clientelismo. Con Giorgio Colangeli, Antonella Attili e Luisa Merloni. Visto al Todi Festival 2023

Di taglio al palco del Teatro Comunale ci sono delle lunghe tende chiare; alte, sinuose, leggere ondeggiano mollemente filtrando della luce pomeridiana. Non una copertura, quanto una promessa che si sa già che verrà infranta. Promesse da portare a termine, promesse tradite, promesse che inevitabilmente creano un legame tra le persone coinvolte. Tre in questo caso: una dirigente sanitaria di un piccolo paese, personaggio coinvolto e stimato (portato sulle spalle con puntualità, grazia e accennata malizia da Antonella Attili); la di lei figlia, studiosa d’arte, ex emigrata in nord Europa e ora di ritorno con famiglia e figli, in visita dalla madre poco prima di partire per le vacanze estive (Luisa Merloni, incisiva e diretta, puntuale nel suo stereotipo dell’impegnata intellettuale disabituata al contesto provinciale); un sindaco, “un po’ appesantito sui fianchi”, alle prese con alcuni non precisati problemi locali, per i quali necessita l’intervento della proprietaria della casa entro cui si svolge la vicende (sornione è Giorgio Colangeli, mellifluo e però pronto ad accogliere l’occasione inaspettata). Quelle tende, nel loro essere complemento d’arredo di uno spettacolo in cui i personaggi agiscono e parlano aderendo a un metro naturalistico, dibattendo di questioni che attengono alla sfera del reale, diventano, in forma di sottile suggestione, il correlativo oggettivo del nodo che ha attanagliato la scrittura di Lucia Franchi e Luca Ricci al debutto a Todi Festival.

Il titolo ce lo dice fin da subito: i tre, per quanto ciascuno faccia di tutto per negarlo, sono Le volpi. Sono personaggi presi ciascuno dalle proprie priorità, ciascuno fermo sul proprio punto di vista a discapito del resto, convinto o convinta che per poter raggiungere il proprio obiettivo, ogni carta vada giocata. Man mano che ci si addentra nel discorso (e il testo ben si presta a dire a mezze parole, accentuando alcuni aspetti e lasciando che altri arrivino dilatati, come gli assoli di Attili, in contrasto quasi – ma volutamente – stonato), si inizia a comprendere che nessuno di loro è un’unica faccia, a proprio modo hanno anche delle ragioni valide. Vale per il sindaco che non vuole che venga chiuso un reparto d’ospedale, vale per la dirigente che è restia a intercedere presso la regione tramite canali personali, vale la figlia che vorrebbe ritornare a lavorare alla direzione del museo contemporaneo locale, mettendo a servizio le sue competenze di professionista al contrario dell’attuale dirigente, galoppino e poco preparato. E però, in una logica pesantemente viziata, a fronte di pur giuste motivazioni di partenza, ogni mezzo non solo diventa lecito ma – come leggiamo nell’esergo al testo con una citazione da Sciascia – «i grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi, e i piccoli fanno scomparire i piccoli fanatismi».

Promesse si diceva, ma leggiamo clientelarismo, leggiamo favoritismi, leggiamo una pratica tanto comune da dirsi connaturata alla gestione, pubblica o privata, di tutto ciò che muove denaro, fondi, posti di lavoro, prestigio, interessi. Allora l’intervento di uno potrebbe essere risolutivo per l’altro ma è fondamentale che rimanga invisibile (come il vento che smuove le tende), che appaia come il corso naturale, corretto, delle cose (come la luce che filtra dal fuori scena), nell’apparente rispetto delle leggi e della morale. Salvo poi invece ribaltare le dinamiche di potere inizialmente presentate e rivelare i meccanismi malati della nostra società, nella quale si invoca la concessione su bando pubblico solo quando ci si sente esclusi e non quando si teme di essere superati. Del resto, un’altra immagine che ritorna con forza è quella del divorare biscotti da parte di tutti e tre, secondo tempi e modi differenti, tutti ad accaparrarsi briciole o pezzi grossi, non tanto per quello che effettivamente contiene in sé. La regia di Luca Ricci, nella nettezza di essere logicamente costruita su strutture quotidiane, alle quali si rifanno anche i tre attori, ben calibrati salvo alcune piccole sbavature da poter asciugare nel corso delle repliche, ha alcuni piccoli accorgimenti in grado di caricarsi di sensi metaforici ulteriori. Davanti a quelle tende si cammina, chissà quali pensieri si agitano, chissà se il personaggio che li oltrepassa non sia a sua volta attraversato da paure inconfessabili, che non si avverano, no, ma che lasciano presagire

La mancanza di coordinate identitarie o geografiche (i tre non si chiamano mai per nome, né viene mai menzionato quale sia il paese) dice dell’universalità di queste dinamiche. Dice di quanto spesso ci siamo trovati, ci potremmo trovare nella posizione di uno di loro, ci mette dalla parte della pubblica accusa morale per poi farci atterrare sul banco degli imputati, intenti a pensare: e se mi ci fossi trovato io? Cosa sarebbe stato necessario per dirmi che, in fondo, andava bene lo stesso autoassolvermi?

Si è rinnovato l’appuntamento con il Todi Festival (…)

Le volpi, di Lucia Franchi e Luca Ricci è uno spaccato lucido e assai amaro della nostra provincia, già passata sotto la lente d’ingrandimento nel precedente Piccola patria. Ci troviamo in una non precisata cittadina in un bollente pomeriggio d’agosto: nel salotto della direttrice dell’Asl, incontriamo lei e la figlia (non ne conosceremo i nomi) che, terminato il pranzo, discutono dei preparativi circa l’imminente partenza verso la casa al mare dove si trova già la famiglia di quest’ultima.

La donna, esperta di arte contemporanea, è tornata in Italia da Rotterdam sperando di trovare una collocazione idonea alle sue qualifiche: lei punta alla direzione del Museo del Contemporaneo di prossima apertura che però sembra già destinato a un volenteroso anche se non molto esperto insegnante. Sono condivisibili le sue ragioni in base alle quali il merito e non l’appartenenza a un circolo chiuso dovrebbe avere la meglio.

La madre è in attesa di una visita: si tratta del sindaco suo amico che ha necessità di parlarle con urgenza. Quando si palesa per il caffè, servito con un vassoio di biscotti vegani, l’uomo fa chiaramente intendere che vorrebbe stare da solo con l’ospite e che sua figlia è di troppo. Nasce un diverbio tra le due donne e alla fine la più giovane la spunta e rimane. Il problema sul tavolo è l’annunciata chiusura del reparto maternità dell’ospedale locale (realtà che in questi anni ben conosciamo…) dato che il numero dei parti è inferiore a quello stimato essere ottimale.

Il sindaco chiede l’intervento dell’amica presso il competente assessore della Regione per scongiurare l’irreparabile, pregandola di chiedere udienza già l’indomani, ma lei non è affatto convinta di questa prassi tanto insolita e chiede tempo. Alla reazione stizzita del sindaco risponde ricordandogli che nella faccenda ha un preciso interesse: il cognato è infatti il titolare dell’azienda che fornisce all’ospedale tutto il materiale sanitario, ovviamente mai sottoposta a un regolare bando.

Dalla collera lui passa alla blandizie e le fa capire che potrebbe farle restaurare a gratis la casa al mare, ma la direttrice rifiuta sdegnosamente. A questo punto interviene la figlia: con una bella dose d’impudenza lancia al sindaco il messaggio che, in cambio della direzione del museo, lei si adoprerà per convincere la madre a fargli quell’agognato “favore”. Riuscirà nell’intento questa coppia tanto spregiudicata e male assortita, perpetrando così l’ennesimo atto di corruzione e malaffare tanto comuni e tollerati nel Bel Paese?

Siamo al cospetto di un testo tagliente e incisivo con dialoghi serrati, spesso ricchi di humor e ironia ma anche drammatici, serviti dalla funzionale regia di Luca Ricci: forse solo un po’ forzati gli “a parte” della madre al microfono, pur se inquadrano molto bene il personaggio, quel suo “scivolare verso l’alto” che ne denota l’ambizione e la forza di volontà necessarie a costruire una brillante carriera. 

Antonella Attili ne dà un ottimo ritratto, mutando i toni che spaziano dall’indignazione alla leggerezza delle debolezze di una nonna. Giorgio Colangeli in un’eccellente performance è il sindaco sanguigno, forte della sicumera del piccolo potere ma incolto (lui avrebbe preferito aprire un Museo della Pasta!) e intrallazzatore, e Luisa Merloni è la razionale figlia che rappresenta l’esercito di giovani talentosi che non riescono a trovare un’occupazione consona e dignitosa (ci si augura meno disponibili del personaggio al compromesso), tutti applauditi al teatro Comunale.

Prodotto da Capotrave e Infinito srl, costumi di Marina Schlinder e suono di Michele Boreggi e Lorenzo Danesin, la tournée di Le Volpi prosegue il 22 settembre a Firenze nell’ambito di Avamposti Teatrali e il 30/9 a Bagnoli di Sopra (Pd) nella Rassegna Musikè.

Un vassoio di pasticcini e una moka da caffè. Una sala da pranzo invasa dall’aria estiva delle ore più calde del primo pomeriggio. Tre “volpi” che interagiscono tra loro seguendo il testo di Lucia Fanchi e Luca Ricci, quest’ultimo anche alla regia e scene. 

Sul palco del Teatro Comunale di Todi (dove ha debuttato nell’ambito di Todi Festival 2023), la protagonista, interpretata da Antonella Attili, veste i panni di una dirigente di un’unità sanitaria, è alle prese con la propria figlia, Luisa Merloni, giovane artista emigrata all’estero per fare fortuna e da poco tornata con la speranza di potersi inserire nelle attività culturali del paese, finora senza successo. 

A far visita alle due donne, sarà Giorgio Colangeli, nelle vesti del sindaco del paese, che si trova a fronteggiare il problema dell’imminente chiusura del reparto di maternità dell’ospedale locale. La questione è il motivo dell’arrivo dell’uomo a casa, come scopriremo poi. Toccati entrambi dalla problematica, i personaggi di Attili e Colangeli discutono su una possibile soluzione. Le vacanze al mare per le due donne sono vicine, ma il lavoro richiede un ritardo. 

Chiamare l’ufficio della Regione e chiedere “per vie traverse” di poter ovviare alla chiusura potrebbe essere un mezzo verso un possibile risvolto? 

Onestà e corruzione si scontrano tra loro già dai primi attimi dello spettacolo, attraverso un tema caldo per la nostra nazione, ovvero quello della sanità e, di conseguenza, le modalità con cui viene gestita dagli uffici decisionali. Merloni è portavoce di valori come la lealtà e la correttezza e denuncia la scalata sociale realizzata attraverso favoritismi ed elargizioni, promossa dal sistema. 

Dall’altra parte, le parole del sindaco che vogliono celare la sua vecchia tendenza al clientelismo ed al dato economico. 

Al centro la dirigente. In più momenti l’attenzione si sposta sul suo personaggio, quando raggiunge il proscenio, illuminata da una luce bianca. Lì, come in un flusso di coscienza, l’attrice racconta le ambiguità della sua professione: un ruolo che deve affrontare innumerevoli problematiche, ma a volte banalizzato ed incompreso dalla gente che la circonda. Appare divisa tra la moralità e il bisogno di chiedere favori per una giusta motivazione legata al bene della cittadinanza. Un dissidio che pervade l’interiorità di ognuno di noi quotidianamente: l’interno essenziale di quella casa – composto da tre sedie ed un tavolino, alcune persiane a fondo palco e una lunga tenda di lato – potrebbe essere quello di un appartamento qualsiasi.

La recitazione naturalistica degli attori contribuisce all’universalità dello spettacolo, che usano dei toni colloquiali al punto che qualche anziano spettatore, alle prime battute, ha faticato un po’ prima di riuscire a “sintonizzarsi” sul registro attoriale voluto. La brezza estiva che spira e che muove le tende è indice della mollezza dell’anima di ognuno di quei personaggi, soprattutto quando ad interagire è la protagonista. 

Durante lo spettacolo, c’è un inaspettato quanto decisivo cambio di rotta, nel quale però anche chi sembrava meno affiliato a certe logiche, sceglie di trarne il proprio vantaggio. Anche contravvenendo ai propri ideali, si può scegliere di realizzare la propria ascesa. Le volpi del titolo sono il simbolo dell’ipocrisia intrinseca agli esseri umani che hanno agito ed agiscono ancora, o hanno iniziato a farlo da poco, per un tornaconto personale. 

Sara Cecchini
Infinito Futuro n. 9 anno 7,3 settembre 2023

26 Agosto 2023

LAURA NOVELLI | Il soggiorno di un appartamento come tanti. Una madre e una figlia ormai adulta parlano dell’imminente partenza per il mare, dei bambini che già si divertono in spiaggia con il nonno. Le solite incomprensioni generazionali. Il nervosismo dell’estate. Il caldo di agosto. Un ospite di cui, non senza trepidazione, si attende la visita. Biscotti vegani e tazzine di caffè già pronti per addolcire la conversazione. E proprio una conversazione a tre voci costituisce l’ossatura portante de Le Volpi, spettacolo di Lucia Franchi e Luca Ricci (anche regista) che, dopo alcune anteprime estive, debutterà il 2 settembre al Todi Festival con Antonella Attili, Giorgio Colangeli e Luisa Merloni per interpreti. Una conversazione abilmente sospesa tra sfera pubblica e questioni private, pasticci politici e legami interpersonali, nel corso della quale i tre personaggi in gioco (designati con una semplice lettera: M, S e F) attraversano gli stati d’animo più controversi, passando con malcelata disinvoltura da vittime a carnefici, da ricattati a ricattatori e intrecciando le loro discutibili scelte etiche con la nostra Storia nazionale. M è la dirigente di una Asl locale la cui integrità professionale vacilla di fronte all’esplicito favore dovuto a S, sindaco di un non meglio specificato centro di provincia, il quale finirà a sua volta incastrato nella trappola opportunistica di F, figlia trentacinquenne della donna.

Il bel testo, sostenuto da una lingua ritmica e musicale che non rinnega i toscanismi e che a tratti si apre a declinazioni oniriche ed intime, nasconde dunque nelle sue maglie la malattia più strisciante nel DNA del nostro Bel Paese: corruzione, clientelismo, raccomandazioni vengono qui snocciolati e allusi sullo sfondo di una provincia asfittica e bigotta dove queste piccolezze, pur se gravi, attecchiscono quasi in penombra e troppo spesso finiscono sminuite a pura prassi. Nulla di cui scandalizzarsi, cioè. La vita va così; le cose stanno così e, alla fine dei conti, non c’è nulla di male.

Come nei precedenti Piccola Patria (2019) e La Lotta al terrore (2017), i due autori – cofondatori della compagnia CapoTrave e ben noti per il loro impegno come direttori artistici del Kilowatt Festival – affondano ancora una volta la penna nei biechi affarucoli di amministratori periferici che proliferano come funghi lungo la Penisola e sul palcoscenico diventano metafora di quella sete di potere e di denaro che, a tutti i livelli della nostra società, ieri come oggi, infesta come un virus letale la vita civile. D’altronde, ce lo insegna con estrema amarezza il capolavoro di Ben Jonson, Il Volpone (1606), cui si ispira il titolo stesso della pièce: “Un omaggio colmo di affetto personale – ci spiega Lucia Franchi – visto che proprio su Jonson ho scritto la mia tesi di laurea”. Raggiunti al telefono in piena vacanza, i due autori raccontano a PAC questa loro ultima avventura artistica.

La prima domanda non può che essere la classica domanda di rito: da dove nasce l’idea di questo lavoro?

LF: Possiamo dire che con Le Volpi proseguiamo il percorso di racconto, ambientazioni e dinamiche relazionali già sperimentato nei nostri due precedenti spettacoli, Piccola Patria e La Lotta al terrore. La provincia italiana fa da paesaggio all’intero trittico semplicemente perché è un mondo che conosciamo bene e che, insieme con il tema della famiglia, rappresenta un microcosmo capace di riflettere un macrocosmo più ampio. Qui abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulla corruzione anche se noi, pur lavorando da anni a stretto contatto con le amministrazioni locali, non l’abbiamo mai sperimentata personalmente. Ci sembrava però interessante affrontare questa malattia italiana e siamo partiti da letture emblematiche in tal senso: Todo modo di Leonardo Sciascia, ad esempio, e appunto Il Volpone.

LR: Aggiungo solo che la provincia è fondamentale nella nostra scrittura perché noi viviamo a Roma ma lavoriamo in piccoli centri della Toscana, regione da cui proveniamo, e quindi abbiamo la possibilità di osservare da fuori, da un punto di vista privilegiato, le dinamiche che raccontiamo. In fondo, a pensarci bene, ogni forma di corruzione viene avvertita come ‘piccola’ anche perché in Italia siamo maestri nell’auto-assoluzione. Credo sia un tratto caratteristico del nostro Paese, dovuto probabilmente alla radice cattolica della nostra cultura: tutto può essere perdonato. Ecco, diciamo che volevamo scrivere una storia emblematica parlando di un orizzonte ristretto in cui un certo malcostume sembra un’eccezione (un’eccezione che poi diventa valanga). In realtà la nostra storia ‘piccola’ vuole essere metafora della nostra italianità, del nostro modo di sentirci cittadini italiani, della nostra mentalità.

Il testo ha apparentemente un impianto classico. Un tragicomico andamento dialogico che rifugge dal mero naturalismo restando, tuttavia, nel perimetro di un’impalcatura tradizionale. Eppure connotate i vostri personaggi solo con le lettere iniziali del loro ruolo. A cosa è dovuta questa scelta?

LF: Semplicemente qui non c’è necessità che i personaggi si chiamino per nome. In fondo essi sono delle funzioni. In Piccola Patria avevamo ragionato diversamente perché vi agivano un fratello e una sorella e c’era la necessità che essi si chiamassero a vicenda. Posso poi dire che, ad un livello più profondo di analisi, il fatto che i personaggi non abbiano un nome proprio incuriosisce molto il pubblico, crea dei depistaggi, porta tutto al livello di un gioco e di un mistero che solo poco a poco viene svelato. Abbiamo voluto, cioè, mettere i tre personaggi in relazione tra loro e con il pubblico partendo da un grado zero. Tutti sono sullo stesso piano. Tutti devono essere decifrati. Ciò serve proprio a far scaturire delle domande negli spettatori, a costringerli ad un lavorio mentale costruttivo.

Fa molto pensare, leggendo il testo, il fatto che alla fine dei conti il personaggio che sembra vivere con maggiore leggerezza il clientelismo di cui è protagonista sia proprio F, la figlia, la figura più giovane delle tre. La sua disillusione e, soprattutto, la sua mancanza di ribellione al sistema sono dati sconfortanti. Cosa potete dirci a riguardo?

LR: Quando scriviamo proviamo sempre a prendere le parti dei vari personaggi che immaginiamo e ci poniamo tanti quesiti. Soprattutto, cerchiamo di capire cosa li muova a fare ciò che fanno e a dire ciò che dicono. Nello stesso tempo, però, la nostra drammaturgia è costruita in modo da spostare continuamente la prospettiva su quanto succede in scena. Motivo per cui, come diceva Lucia prima, il pubblico è costretto a chiedersi delle cose, a inseguire i personaggi stessi nel tentativo di comprenderli. La figlia, a ben vedere, non è peggiore degli altri due. Perché qui non ci sono buoni o cattivi. Nessuno dei tre ha completamente torto né completamente ragione. Non ci piacciono le divisioni dicotomiche; semmai le sfumature, le contraddizioni.

LF: Concordo con quanto dice Luca. Vorrei chiarire che la figlia è una donna giovane che fa l’operatrice culturale, dunque un lavoro simile al nostro. Abbiamo voluto che lei ne uscisse così proprio per far capire che nessuno può e deve scampare ad un’autoriflessione. Nessuno è immune dai compromessi. Ne Le Volpi si parla però di compromessi che vanno ben oltre quelli che facciamo tutti nel quotidiano, nelle relazioni, nel lavoro. E quando l’asticella dei compromessi sale è bene che ognuno di noi, al di là dell’età anagrafica, senta il dovere di ragionarci e interrogarsi.

Come vi organizzate in questa scrittura a quattro mani che ormai conta diversi titoli nel repertorio di CapoTrave?

LR: Non c’è una regola. Sono quindici anni che lavoriamo insieme e ormai abbiamo trovato un assestamento, per così dire, interno. Di solito, dopo aver maturato l’idea da elaborare, pensiamo molto prima di scrivere, leggiamo, studiamo. Poi Lucia trasforma tutto questo materiale in battute. Invece la revisione finale spetta a me. Nello specifico de Le Volpi, tutte le scene che abbiamo intitolato Incursioni dal futuro (scene in cui M si allontana dalla situazione realistica della conversazione e fa un monologo personale) le ho scritte io. O meglio, le ho estrapolate dal corpo della drammaturgia dove erano state messe in un primo momento. Credo che con questo stratagemma strutturale il testo acquisti un aspetto post-drammatico di rottura della finzione che contribuisce in misura sostanziale all’engagement del pubblico.

LR: La regia è molto semplice perché essenzialmente fa leva su tre attori molto bravi e sull’idea di uno spazio attraversato da toni caldi e freddi di luce. Mi spiego: lo spazio deputato alla conversazione è una sorta di area circolare dove predominano i toni freddi, proprio per indicare il gioco di equilibrio, di mediazione, in cui i personaggi si trovano invischiati. Intorno a loro, però, è estate, siamo in agosto. E dunque il mondo esterno si traduce in toni caldi di contorno che restano però sempre sullo sfondo, fuori dal perimetro dell’azione. Verticalmente, ad esempio, ho immaginato una lunga veneziana da cui filtra la luce e una tenda che ogni tanto ha un moto ondulatorio, come se fosse mossa dal vento. Tutti elementi che ci parlano di un fuori, di una dinamica. Lo spazio quindi non è pensato in termini realistici bensì assolutamente evocativi, fluidi.

Non deve essere facile conciliare il lavoro di drammaturghi e registi con l’organizzazione e la direzione di Kilowatt. Come riuscite a tenere insieme le vostre due anime teatrali?

LR: Questo doppio ruolo è proprio la croce e la delizia della nostra vita professionale. Kilowatt sarebbe impensabile senza la squadra di persone che da anni ci affiancano lavorando con grandi passione e impegno. Ciò ci aiuta molto, perchè tutti gli aspetti meramente organizzativi li deleghiamo ad altri. Certamente noi nasciamo come artisti che il teatro lo fanno (CapoTrave è nata nel 2003, ndr). Da quando dirigiamo il festival corriamo il rischio di essere incasellati come ‘quelli di Kilowatt’ e spesso sentiamo di non riuscire ad avere pari visibilità come autori. Ovviamente siamo felicissimi che la rassegna sia cresciuta e sia apprezzata. Ci teniamo molto. Ma il festival rimane ben separato dall’attività drammaturgica: da anni non presentiamo più i lavori di CapoTrave nel programma di Kilowatt, né lo faremo in futuro, perché non ci sembrerebbe né opportuno né elegante. D’altro canto, però, rivendichiamo la giusta attenzione anche per il nostro lavoro di scrittura e di regia.

Da un lato, siete direttori di uno dei festival italiani più importanti e dall’altro autori e produttori di testi contemporanei. Sicuramente ciò vi garantisce un punto di osservazione privilegiato rispetto proprio al panorama della nuova drammaturgia. Che idea avete riguardo i giovani autori italiani?

LF: Ovviamente come organizzatori di Kilowatt leggiamo molti testi, molti progetti. Il festival aderisce anche al Network drammaturgia Nuova (NdN) coordinato da Idra Teatro di Brescia e posso dire che – parlo a titolo soggettivo, per me e Luca – la drammaturgia contemporanea in Italia ci sembra molto viva. Inoltre, si registra un ritorno al teatro di parola. Dopo anni in cui predominava una ricerca anti-dialogica e anti-plot, oggi notiamo che ci sono brave autrici e bravi autori che producono testi per lo più di impianto classico o comunque molto attenti al linguaggio verbale. Molti di loro escono dalle scuole ufficiali e scrivono spesso per una loro compagnia. Forse quello che manca è la possibilità, per questi talenti, di fare esperienze formative sempre nuove e arricchenti, magari anche all’estero. Ciò vale anche per la danza o il circo. Servono canali formativi altri e diversificati. Serve, in parole povere, una formazione continua. Perché a volte, alla grande vivacità di idee, si accompagnano delle carenze di tipo meramente tecnico. Comunque sia, guardando al quadro europeo, noi italiani non siamo assolutamente indietro rispetto ad altri Paesi e anzi, in fatto di inventiva e immaginazione, abbiamo sempre tanto da dire.

LE VOLPI
“Secondo gli esperti, questo successo (il moltiplicarsi delle volpi al punto da non poterne indicare il numero) è dovuto soprattutto alla straordinaria capacità della volpe di sfruttare ogni tipo di risorsa e ogni tipo di ambiente, anche molto antropizzato” (Marco Granata, “Uomini e volpi, quasi amici”): perfetto dunque il titolo scelto, “Le volpi”, da Lucia (Franchi) e Luca (Ricci) di CapoTrave per lo spettacolo che svela, in modo sciolto, realistico e sintetico, con un dialogato ben costruito, anche i molteplici “sottotesti”, pensieri e stati d’animo, che conducono a quella adattabilità all’ambiente (sociale? politico?) che risponde felicemente (forse), al di là di ogni riflessione/ ostacolo etico, ai singoli interessi individuali nella parvenza dell’interesse collettivo.

Un testo che si legge con infinito piacere, facendo anche nascere il sorriso, specie lì dove si colgono quei lievi slittamenti di posizione tra detto e non detto, bisogno di difendere la propria posizione (ideale?) scivolando verso altre direzioni, alla conquista infine di quei compromessi cercati, voluti, raggiunti. Un lieto fine? Sartre aveva intitolato un suo testo “L’ingranaggio”, lì dove l’ideologia, le scelte rivoluzionarie, erano divorate dalla necessità della Storia: impossibile la nazionalizzazione del petrolio, il sequestro dei beni degli stranieri. Non c’era scelta. O forse sì: ma a quale prezzo?

Anche con “Le volpi” si può riconoscere una condizione obbligata? Anche qui sembra di riconoscere una struttura a catenaccio perché si conservi in paese il reparto Maternità, perché possano essere fatti con cura i lavori alla casa al mare, perché anche in quel territorio si possa cogliere nel nuovo Museo del Contemporaneo un respiro internazionale, perché una giovane donna con figli possa tornare in Italia, nel luogo d’origine, e, portando benefici culturali alla sua terra, raggiungere l’equilibrio desiderato tra lavoro e famiglia.

Ad accompagnare il titolo, di fianco alla citazione di Ben Jonson (“Honour? Tut, a breath; there’s no such things in nature: a mere term invented to awe fooles”, da “Volpone”, l’onore solo un respiro, una parola inventata per stupire gli sciocchi: è ben altro a muovere il mondo) si trova quella di Leonardo Sciascia, “I grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi e i piccoli fanno scomparire i piccoli fantasmi”, da “Todo Modo”.

Senza seguire lo spettacolo di CapoTrave, si fossero conosciuti solo gli esiti di quegli accordi, chi avrebbe potuto immaginare quel gioco a tre? Sì, probabilmente non sarebbero mancati dei pettegolezzi, vaghe ipotesi e poco più… Molto bravi gli interpreti Antonella Attili, Giorgio Colangeli e Luisa Merloni: si avverte il senso delle pause, questo naturale/ funzionale uscire/ entrare dell’uno o dell’altro per permettere anche confronti a due tra il sindaco, la madre, (funzionaria di alto grado nella gestione della sanità) e la figlia, una sorta di coreografia dialogica ben congegnata preparando caffè, mangiando biscotti vegani.

A creare momenti di sospensione, di lato, al microfono, passaggi di straniamento, ci sono alcuni pensieri “a parte”, subito significativo quello dell’avvio, come se fosse tutto un ricordo, qualcosa di già avvenuto a cui ripensare: quando era iniziato tutto quello? Non c’era stato un momento preciso, lei almeno non se n’era accorta… Già: tutto era accaduto in modo sereno, tranquillo, appena ogni tanto qualche beve inizio di contrasto, facilmente riassorbito, come in famiglia quando nessuno vuole far nascere litigi, lì, in quella sorta di salottino, un soggiorno con tavolino e qualche sedia.

C’è tuttavia un’urgenza: bisogna fare al più presto una telefonata. Perché è estate e il giorno dopo si parte per il mare. Ma come mai la figlia non vuole andarsene?, pure è quanto si preferirebbe: deve svolgersi un dialogo di lavoro tra due persone che hanno degli obblighi nei confronti della comunità, in quel mondo di provincia, che tale si rivela sotto molti aspetti, anche nel fare i nomi di chi comunque non è possibile mettere da parte.

Le battute sono brevi, buono il ritmo, i toni confidenziali, si parla di orari per la partenza, della ricetta dei biscotti, del mercatino al mare… Anche se si colgono qua e là delle tensioni: la madre per esempio teme un poco il carattere della figlia, “a volte sei ruvida…”. E’ consapevole che quello sarebbe stato un incontro “politico” e non vuole che la figlia sappia, veda, giudichi, intervenga “ruvidamente”? Pure sa essere anche “amabile”!

Molto interessanti quei frammenti di discorso sul rapporto tra amatoriali e professionisti per il Museo del Contemporaneo da aprire in un palazzo appena restaurato, così come per il bisogno di conciliare realtà locale e visibilità internazionale. “Io sono la più adatta a dirigere quel Museo”: la figlia lo dice esplicitamente. Sembra non abbia nessuna voglia di tornare a Rotterdam. Parla di trasparenza, riconoscimento dei meriti. Ci vorrebbe un bando?! A questo si arriverà? Ma non si vuole dire di più: perché c’è anche una sorta di suspense in questo gioco dell’adattabilità volpina…Un ottimo testo, un’eccellente recitazione. E, malgrado non se ne desiderino più da tempo, potrebbe starci bene anche un bel dibattito finale…

in Hystrio, ottobre 2023

É un grido d’allarme per denunciare il malcostume e la consueta, accettata corruzione negli ambienti politici, un sistema, anche nel piccolo della provincia, fatto di scambi, favori, bandi farlocchi, aiutini, inciuci, intrallazzi, abuso d’ufficio e abuso di potere. Tre i personaggi in scena ne “Le volpi”, una sorta di saggio sociologico-economico a tratti brechtiano, altre immerso nelle atmosfere ibseniane di “Nemico del popolo”: la madre, alta dirigente della Sanità pubblica, la figlia (Luisa Merloni battagliera), che è dovuta emigrare nel Nord Europa per poter mettere a frutto i suoi studi artistici, e il sindaco del paese (ottimo Giorgio Colangeli). Il sindaco vuole che la dirigente faccia una telefonata per non far chiudere la maternità dell’ospedale cittadino (bassa natalità e Sanità a rischio), in realtà non vuole che il cognato perda l’appalto delle forniture, firmato senza bando e con decreto d’urgenza. La dirigente vorrebbe vedere più spesso i due nipotini e li avrebbe vicino casa se la figlia fosse nominata direttrice del neonato Museo della Contemporaneità. Sono tre volpi furbe, complici e colpevoli. La vera protagonista, schiacciata tra incudine (il sindaco-amico) e martello (la figlia), è la direttrice generale (Antonella Attili di polso), madre e nonna, che a più riprese confessa, come una voce fuori campo, nella bolla del microfono sul boccascena, i suoi patimenti e lacerazioni etiche, il suo non essere mai scesa a compromessi, l’essere integerrima. Il tappeto sonoro sottolinea questa indagine ricca di mistero, suspense e pathos. I tre bevono continuamente caffè e ingurgitano biscotti in una critica a 360° al nostro (ex) Bel Paese in declino dove il lavoro manca, quello creativo è amatoriale e sottopagato, i bambini non nascono, la regolarità dei bandi inesistente, dove ti devi affidare a padroni e padrini per aver riconosciuto valore e merito, dove è normale prendere scorciatoie perché “così fan tutti”.